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E ora, come sempre, schiaccia play e… buona lettura.
C’è un momento in Quando muori resta a me durante il quale in macchina Genitore 2 (il padre) racconta entusiasta a Zerocalcare di come speri arrivi presto un nipotino per poter fare tantissime cose con lui prima che diventi troppo vecchio.
“Ecco sta cosa un po’ mi dispiace. Tacci sua, Sento più l’orologio biologico suo de quello mio” confida il fumettista romano ai lettori.
Il tema del senso di colpa di noi figli nei confronti dei genitori è quasi ancestrale e, seppur in proporzioni diverse, credo affligga trasversalmente tutti. Penso ad esempio proprio a quella frase e a tutte le volte che negli ultimissimi anni è risuonata tra i miei pensieri. Non che i miei abbiano mai seriamente manifestato il desiderio di diventare nonni, ma ogni tanto qualche battuta sul tema viene buttata lì con nonchalance in quelle videochiamate che la mia di Lady Cocca (nome in codice della madre di Zerocalcare) mi intima di farle.
Era impossibile, quindi, non riconoscermi in quel momento di sconforto, in cui sai benissimo che una parola di troppo andrebbe a dare l’ennesima “mazzata” sociale ai tuoi: “non so neanche se mai avrò un figlio.”
Lo capisco Michele Rech, in arte Zerocalcare, perché anch’io sento più l’orologio biologico dei miei che il mio, io che non so neanche se mai sarò genitore, che gli anni passano ma continui a vederti eternamente ventenne illudendoti di avere ancora tempo per azzerare i conti e metterti in paro con la vita e le aspettative di chi tifa per te da sempre.
E quel senso di colpa che proviamo costantemente verso i nostri genitori ci accompagna incessantemente, portandoci sempre a chiedere se siamo riusciti (o mai riusciremo) a restituire almeno un decimo di tutto quel bagaglio emotivo che hanno riversato (spesso a torto) su di noi, che pur alle soglie dei quarant’anni non abbiamo ancora davvero capito tutto quello che reca con sé essere una figlia o un figlio.
Ho amato molto Quanto muori resta a me, peraltro frase - cavallo di battaglia del mio genitore 2 quando guarda felice la sua collezione di vinili (“tanto lo sai che quando morirò tutto questo resta a te”) e che sta quasi ad indicare come un sacro passaggio di consegne da trattare con cura. L’ho amata perché, al netto dei dettagli, racconta di quella profonda incomunicabilità in cui ci ritroviamo a galleggiare per anni con i nostri genitori, in cui nessuna delle due parti sembra riuscire a trovare il piccone per abbattere muri di silenzi e di incapacità di “esposizione” delle proprie emozioni in un modo che sia sano e costruttivo.
Da piccoli ci insegnano a parlare e poi, però, col tempo dimentichiamo come farlo proprio con chi quelle prime parole le ha donate con cura smaniando in attesa di un cenno di risposta da parte nostra.
A volte ho la sensazione che per i genitori quella febbricitante attesa di sentirci parlare e comunicare con loro sia uno stato nel quale vivono immersi per sempre. E più cresciamo e ci allontaniamo da casa, più desiderano ancora di più sentire le nostre parole. Come il genitore 2 di Zerocalcare che in un lungo viaggio verso le Dolomiti rinfaccia al figlio di non dirgli mai nulla. Altra frase che almeno una volta ci siamo sentiti dire con sguardo a tratti rassegnato.
Ed è in quei silenzi che si moltiplicano le fratture di cui racconta Zerocalcare nelle tavole finali, fortissime come un pugno improvviso, nelle quali ipotizza come quelle stesse fratture scomposte si siano ormai calcificate storte.
“Cuori zoppi e afoni che non sò capaci a dirsi le cose. Qualche volta le intuiscono, qualche volta no.”
E in questa ammessa e riconosciuta incapacità di verbalizzare le nostre emozioni con genitori 1 e 2, rimane forte quel senso di colpa “che non te lo spiega nessuno” come ben scrive l’artista, né in famiglia né a scuola. Arriva improvvisamente, provi a decifrarlo e infine ti arrendi alla sua presenza costante nella tua vita.
Due settimane fa ho (ri)visto dal vivo Vasco Rossi dopo dieci anni esatti dall’ultima volta. Inutile sottolineare il ruolo che molti suoi pezzi hanno e continuano ad avere nella personale classifica emotiva della mia vita.
Lui che ha fatto della malinconia il suo vessillo, occhi blu e la stessa identica intensità anche a 72 anni nel cantare pezzi mai invecchiati di un giorno. Lui che le canta sempre come se fosse la prima volta, con lo stesso dolore primordiale.
Come Canzone, la mia preferita di sempre. Lui che solo pochi anni fa dichiarò come quell’incipit fosse nato pensando al padre, scomparso da poco. Pochi accordi e poi quella strofa immensa:
“È nell'aria
ancora il tuo profumo
dolce caldo morbido
come questa sera
mentre tu
mentre tu
non ci sei più
E questa sera nel letto metterò
qualche coperta in più
perché se no avrò freddo
senza averti sempre addosso"
Salvo poi cambiare rotta. Vasco disse che era un’emozione troppo intima e decise così di virare trasformandola in una canzone d’amore per una donna. Ma l’emozione era tutta lì, nel dolore di un figlio per un padre che non c’era più.
Se essere genitori immagino sia una sfida senza fine e senza un adeguato libretto d’istruzioni, essere figli non è cosa da meno. Oscilliamo tra un egoismo necessario per andare avanti e quella consapevolezza di provare a rendere qualcun altro fiero di noi. Come a restituire, o almeno provarci, un grammo di tutto quell’amore ricevuto seppur a volte goffo, impacciato o silenzioso.
E nel mentre che mi chiedo, a fasi alterne, se mai sarò un genitore in questa di vita, non posso fare a meno di chiedermi continuamente che figlia sono stata e continuo ad essere. Desiderando anch’io, come Zerocalcare, un duolingo delle emozioni che avrebbe aiutato a superare tanti livelli emotivi con i miei. E forse allentato la presa di quel senso di colpa che forse fisiologicamente si trasmette ai proprio figli. O forse no.
Ma io del resto che ne posso sapere.
#ItsFridayImNotInLove
💌 Modern Love
Dalla rubrica settimanale del New York Times “Modern Love” (da cui è tratta la serie disponibile su Amazon Prime)
Cosa succede quando tua moglie ti propone di diventare una coppia poliamorosa? Il Modern Love di Jason Bilbrey è particolarmente interessante perché spiega bene come può evolvere un matrimonio e cosa significa realmente cercare sé stessi ed esistere anche e soprattutto fuori dalla propria relazione.
“Although I have stopped being non-monogamous, I have also stopped depending on romantic love for a sense of identity. For that, I’m grateful for polyamory.”
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Un viaggio con Genitore 2 in cui è impossibile non ritrovare un po’ dei nostri rapporti personali familiari. Una storia nella Storia quella di Zerocalcare in “Quando muori resta a me” che sa essere autobiografica ma anche così vicina a quella di noi lettori. Penso a chi ha vissuto da piccolo il divorzio dei propri genitori o all’incomunicabilità che spesso si acuisce con gli stessi nel corso degli anni. Un racconto genuino e senza filtri veramente da non perdere e in questa bella recensione qualcuno lo spiega meglio di me.
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